Se Milano allontana chi vive in affitto è (anche) perché nutre un sistema chiamato AirBnb

Milano vive trasformandosi. È sempre stato così, da quando i Visconti decisero di fare della loro città un crocevia di commerci e ambizioni. Fino a un decennio fa il capoluogo lombardo era solo la capitale economica d’Italia, ma da quando l’Expo del 2015 ha acceso i riflettori internazionali sulla città si è convinta di essere anche quella turistica (o di poterlo diventare). Gli affitti brevi sono arrivati come una conseguenza naturale, quasi inevitabile.
Già nel 2018 gli annunci su AirBnb erano 17.700, nel 2024 sono arrivati a oltre 22.600 (dati Inside AirBnb). Nello stesso periodo, il prezzo medio dei canoni d’affitto in città è passato da 17,4 a 23,3 euro a metro quadro (un aumento nominale del 34%). Questi due fenomeni – come accade in altre città italiane ed europee – sono legati: gli affitti brevi possono comprimere l’offerta di abitazioni, esercitando pressione sul mercato e spingendo in alto i prezzi. Ma il punto è: in che misura questo sta accadendo a Milano?
In generale, secondo l’autorevole centro studi Tortuga, ad un aumento dell’1% nella penetrazione di Airbnb (cioè la percentuale di case messe online rispetto a quelle affittabili) corrisponde un aumento del 6.7% nei prezzi di acquisto delle case e del 5.7% nei prezzi degli affitti.
Questa stima, tuttavia, è basata su calcoli nazionali, mentre ogni città è peculiare. Determinare in che misura quei numeri si applichino a Milano è molto difficile, ma un indizio si può ottenere confrontando il numero di annunci pubblicati su AirBnb dal 2012 ad oggi con il prezzo medio degli affitti in città nello stesso periodo. Come si vede dal grafico, l’andamento è simile.

In particolare, c’è un numero – si chiama indice di Pearson – che misura quando due fenomeni “si muovono” insieme. Basti sapere che un valore vicino a 1 dice che tra i due fenomeni c’è una perfetta correlazione, mentre un valore vicino a 0 rivela che non c’è legame evidente. Bene, mettendo a confronto annunci su AirBnb e prezzo degli affitti nello stesso periodo, anno per anno, il risultato è 0,9: cioè una correlazione netta (qui sotto la correlazione in formato grafico).

Ovviamente, il fatto che è esista una correlazione non vuol dire che ci sia una causalità (l’uno potrebbe non causare l’altro). Ma diversi studi che hanno rilevato la stessa correlazione condotti negli ultimi anni hanno ipotizzato un nesso causa-effetto. Una vasta ricerca finanziata dalla Commissione europea per valutare la situazione a Roma, Milano e Parigi, rileva che “per quanto riguarda i prezzi delle case, riscontriamo una significativa correlazione positiva tra la presenza di alloggi in affitto a breve termine (Airbnb) e i prezzi delle case a Milano e Roma”. Questo impatto, secondo la ricerca, riguarda soprattutto le case di medie dimensioni e nelle aree centrali della città.
La ricerca conclude ribadendo che è necessario approfondire “se esista una relazione causale tra l’aumento dei prezzi delle case e l’espansione degli annunci Airbnb” e sostiene che “gli affitti a breve termine, se non sufficientemente regolamentati, potrebbero portare a una progressiva disgregazione del tessuto sociale”
Un altro studio dell’Università Bicocca, riprendendo dati Irept, afferma come “l’attuale tasso di penetrazione del mercato degli affitti a breve termine a Milano mostra elasticità che si traducono in aumenti dei prezzi di affitto del 5-7% in tutta la città, mentre i quartieri ad alta intensità turistica registrano impatti ancora maggiori”.

Il quartiere dei Navigli, ad esempio, mostra una delle concentrazioni più alte di affitti a breve termine, pari al 12% del totale delle unità abitative: qui i canoni degli affitti dal 2015 al 2023 sono aumentati del 42% (rispetto a un aumento medio in città del 28%).
A Milano la maggior parte dell’offerta di affitti brevi si concentra nelle zone più interne della città, con una forte penetrazione nelle zone circostanti la stazione. Le zone dove ci sono più annunci, oltre al Centro, sono Buenos Aires, Centrale, Porta Ticinese, Brera, Sarpi, Loreto, Navigli e Isola. Queste zone hanno i canoni tra i più alti della metropoli.

Ma la questione non riguarda solo i prezzi: gli affitti a breve termine stanno trasformando la città in modi che vanno ben oltre le semplici dinamiche di domanda e offerta. Il mercato di Airbnb è sempre più attrattivo: in poco più di dieci anni, il costo medio per affittare un appartamento per vacanze o viaggi di lavoro è salito da 80 a 166 euro a notte (con derive notevoli in vista delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026).

Questo ha prodotto una corsa verso AirBnb. Se in passato la gestione degli appartamenti messi sulla piattaforma era per lo più una questione privata tra proprietario e ospite, ora questa gestione è diventata un business turistico. E negli ultimi anni questa tendenza è sempre più marcata. Nel 2018 solo il 39% degli annunci era gestito da host con più di una proprietà: nel 2024 quella percentuale è salita al 63%. Tradotto: tutto è sempre più accentrato e ci sono ormai agenzie o start-up che gestiscono centinaia di appartamenti.
Oggi, i dieci host più grandi a Milano sono Italianway (gestisce 480 annunci), Donato (345), Cleanbon House (305), Simone (202), Chiara & Roberto (138) – usano nomi propri, ma di fatto si tratta di agenzie. E ancora: I-Host (136), Andrea (135), Youhosty (128) e Habyt (127) e Its Home (119).

Questi, insomma, non sono privati proprietari di casa che mettono online il loro secondo appartamento (magari ereditato). Ma aziende specializzate negli affitti brevi. Il loro modello è semplice: prendono in gestione gli appartamenti dei proprietari, si occupano di tutto (pulizie, check-in, rapporti con gli ospiti) e in cambio garantiscono una rendita mensile fissa, o in percentuale, al proprietario. Per molti proprietari è un affare: niente inquilini da seguire, niente vincoli, nessun contratto di quattro anni rinnovabili per altri quattro, nessuna delle complicazioni dei canoni concordati o del social housing. Se un giorno decidono di riprendersi casa, possono farlo quando vogliono.

Il punto è che in questo modo la gestione di migliaia di appartamenti finisce nelle mani di poche società. E una concentrazione così ha due conseguenze importanti. La prima: queste aziende possono influenzare pesantemente i prezzi del mercato immobiliare. La seconda: dal punto di vista normativo si complica tutto, perché tra Airbnb e chi affitta c’è un intermediario in più. E questo rende molto più difficile qualsiasi tentativo di regolamentazione.
Beninteso, a condizionare il mercato immobiliare c’è un’enorme quantità di fattori. La crescente presenza di AirBnb influenza l’aumento dei prezzi degli affitti solo in una minima parte: i canoni sono influenzati dalla crescita economica locale, dall’aumento della domanda abitativa per lavoro, dagli investimenti immobiliari internazionali, dalla (presunta) speculazione edilizia e non solo.
Ma un impatto esiste. E il risultato di tutto questo è che Milano si trova oggi di fronte a una scelta. Da una parte c’è l’attrattività turistica, che porta soldi e visibilità internazionale. Dall’altra c’è la vivibilità per chi ci abita davvero, per chi studia o lavora qui e deve pagare più di 1.200 euro per una stanza in zona Loreto o in Bocconi.
È la classica situazione in cui tutti hanno interessi legittimi: i proprietari che massimizzano i guadagni, i turisti che trovano sistemazioni comode, le agenzie che costruiscono business milionari. Ma il conto, spesso, lo pagano quei milanesi che non riescono più a permettersi di vivere nella loro città. Non è una storia nuova, tutto questo è già avvenuto a Barcellona, Amsterdam, Lisbona: queste città hanno dovuto combattere per preservare la loro anima popolare, e non sempre ci sono riuscite. La domanda è: Milano saprà fare diversamente, o ripeterà gli stessi errori?
Il Giorno