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La pressione fiscale addizionale che non si vede ma si paga

La pressione fiscale addizionale che non si vede ma si paga

beffa in busta paga

Così i rialzi locali cancellano i risparmi nazionali. Il governo insiste sulla riduzione delle aliquote, ma le addizionali locali fanno lievitare le tasse per redditi sopra i 35 mila euro. E, insieme all'inflazione, spazzano via i benefici della riforma Irpef

Il governo nega l’aumento della pressione fiscale, sostenendo che la riforma dell’Irpef ha ridotto le aliquote, soprattutto per i redditi medio-bassi. L’opposizione, invece, preferisce deviare il dibattito su altri terreni – il Jobs Act di dieci anni fa – evitando di denunciare un fatto evidente: chi guadagna a partire da 35 mila euro lordi paga oggi, in termini complessivi, più tasse di prima. E questo non solo per effetto del fiscal drag, ma anche per colpa degli enti locali – regioni e comuni – che hanno aumentato le addizionali Irpef.

Negli ultimi due anni, molte amministrazioni locali si sono viste costrette ad aumentare le proprie aliquote Irpef per far fronte all’impennata dei costi correnti. L’inflazione ha alzato il prezzo delle forniture energetiche e imposto un adeguamento – per quanto parziale – degli stipendi pubblici. Regioni e comuni finanziano la spesa con entrate proprie (Imu, Irap, addizionali Irpef) e con trasferimenti statali. Ma i trasferimenti non sono indicizzati all’inflazione, e non bastano più. Lo abbiamo documentato in un altro articolo: oltre ai comuni anche le regioni spesso scaricano sulle addizionali Irpef i mancati aumenti dei trasferimenti del fondo sanitario nazionale. Per questo motivo, molte città (Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli, Bari) hanno mantenuto le addizionali al massimo consentito ( 0,8 per cento). Altre, come Ferrara, hanno ritoccato le aliquote colpendo anche i redditi più bassi. Tra le regioni, nel 2025 è toccato a Emilia-Romagna e Abruzzo, mentre nel 2024 Liguria, Molise e Toscana avevano aumentato l’addizionale regionale al 3,3 per cento accanto a Lazio, Piemonte e Campania. Presto seguiranno altre regioni, di fronte alla minaccia di dover tagliare le spese correnti.

Gli aumenti locali vanificano la tanto celebrata riduzione della pressione fiscale nazionale. E’ vero che, in media, l’aliquota Irpef è scesa per i redditi medio-bassi, anche grazie all’introduzione di detrazioni in sostituzione del taglio del cuneo fiscale. Ma se si guarda all’imposta complessiva – nazionale, regionale e comunale – il risparmio evapora, e in molti casi si trasforma in un aggravio. Prendiamo un caso concreto. Nel 2025, i docenti universitari hanno ottenuto un aumento del 4,8 per cento per recuperare, almeno in parte, il potere d’acquisto perso con l’inflazione, che tra 2022 e 2024 ha superato il 17 per cento. Esaminiamo due casi: un professore ordinario e un ricercatore di tipo A. Per il professore , lo stipendio al lordo dell’Irpef passa da circa 75.000 a 78.700 euro. Ma l’Irpef nazionale da pagare cresce del 6,18 per cento, quindi più dell’aumento dello stipendio. A questo si aggiunge un rialzo delle addizionali: +79 per cento regionale, +15 per cento comunale. Risultato? L’aliquota media complessiva (cioè la quota di reddito che finisce in tasse) passa dal 35,87 al 37,78 per cento, un incremento di quasi 2 punti percentuali: più della metà dell’aumento in busta paga viene così riassorbito dal fisco. La beffa è duplice, non solo si perde potere reale d’acquisto, ma si pagano più tasse di prima: cornuti e mazziati.

Per il ricercatore, la situazione è più sfumata. Lo stipendio al lordo cresce da 32.900 a 34.400 euro. La riforma fiscale riduce di quasi un punto l’aliquota Irpef statale, grazie a una detrazione di 690 euro, e in teoria ci sarebbe un piccolo beneficio netto. Ma gli aumenti delle addizionali – +45 per cento regionale, +27 per cento comunale – assorbono quasi tutto il guadagno. L’aliquota media totale rimane quasi invariata: da 22,60 a 22,45 per cento. Di fatto, il lavoratore recupera potere d’acquisto solo per effetto del contratto, non della riforma fiscale. In questo caso la beffa è una sola, la pressione fiscale non aumenta, ma la perdita di potere d’acquisto resta notevole: di fronte a un’inflazione al 17 per cento, due anni dopo si recupera soltanto poco meno del 5 per cento del salario.

Sarebbe ora che il dibattito politico affrontasse questo tema con la serietà che merita. Perché la pressione fiscale non è solo una questione di aliquote statali, ma di somma complessiva di prelievi che incidono sul reddito delle famiglie. E perché non si può continuare a parlare di riduzione delle tasse se le buste paga continuano a raccontarci un’altra verità. Un’ultima notazione: tutto questo vale solo per dipendenti e pensionati. Gli autonomi “forfettari” che pagano solo la flat tax, non versano Irpef né addizionali comunali e regionali.

ilmanifesto

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