Il rebus della Gen Z: record di laureati, ma no alla carriera

Una motivazione che trae forza dall’identità stessa del lavoro, dal suo svolgimento. Un’idea della carriera improntata alla possibilità di svolgere esperienze piuttosto che alla scalata di ruoli aziendali. Una, perseguita e pretesa, separazione netta tra la vita professionale e quella personale. Sono i tre pilastri fondamentali su cui impronta la propria relazione con il lavoro la cosiddetta Generazione Z. Si tratta dei i giovani nati tra il 1996 e il 2012, ovvero il 13,5% della popolazione italiana, il 10% della popolazione lavorativa italiana attuale, il 58% della popolazione lavorativa globale nel 2030.
Di loro, ma soprattutto delle loro aspettative professionali, si è occupato l’Osservatorio Hr Innovation Practice del Politecnico di Milano, producendo l’analisi dal titolo «Generazione Z: quali evoluzioni nel mondo del lavoro?» (il campione comprende studenti di diverse università: Politecnico di Milano, Statale, Bicocca). Partendo da una constatazione: quella considerata è «la generazione più formata di sempre, il 47% dei neoassunti è infatti laureato, è nativa digitale e si è formata con la didattica a distanza». Più in generale sono individui «molto interessati agli impatti sociali ed ambientali delle loro azioni. Hanno poca fiducia nelle istituzioni (Stato e organizzazioni) e nelle loro strategie di comunicazione. Sono cresciuti in un ambiente instabile (la crisi 2008, recessione 2012, Covid-19, crisi climatica, conflitti internazionali). Sono molto orientati al presente, con poche speranze per il futuro».
L’insieme di queste componenti produce come risultato una percezione respingente del mercato del lavoro nazionale che fa leva su due critiche. La prima è relativa alla sua complessità («il mercato del lavoro è molto complicato, pieno di sfaccettature, e con molte discipline che richiedono alta specializzazione […], questo dà ai giovani moltissime opportunità, ma rende anche difficile scegliere ed orientarsi», lamentano); la seconda è la scarsa attenzione alle politiche di inclusione e sostegno dei giovani («l’Italia è un Paese per vecchi in tutto […], dalle politiche alle aziende. I giovani non vengono ascoltati e valorizzati […] si pensa sempre che non sappiano fare niente»).
E in effetti, rilevano i ricercatori del Polimi, se si guarda ai dati scopriamo come tra il 2004 e il 2022 sia diminuito il tasso di occupazione tra i 15 e i 34 anni (-8,6%) mentre è cresciuto quello dei 50-64enni (+19,2%); come il 16% del Pil sia destinato alla previdenza e al sistema pensionistico, una delle percentuali più alte d’Europa, mentre solo il 2% delle risorse del Pnrr sono dedicate a politiche giovanili. Tutto questo scatena il timore di «non trovare un lavoro», o comunque di non trovarlo legato «a quello che si è studiato, o con un contratto non dignitoso». Una paura, ricostruiscono ancora i ricercatori, per nulla irrazionale dal momento che «dal 1990 al 2023 si è registrato un aumento dell’inflazione cumulativa pari al 109%, un incremento del costo degli affitti e delle case dal 2010 al 2023 rispettivamente del 16% e del 13%, una flessione in termini reali del salario medio annuo dal 1990 al 2020 del 3 per cento».
La reazione è dunque l’affermazione di un’idea: i mercati stranieri sono più attrattivi («all’estero ci sono più diritti e rispetto per i lavoratori […] Se trovi un contratto di solito è ben retribuito e a tempo indeterminato […] In Italia un giovane spesso è in continuo precariato, senza un salario minimo, o lavora in nero», sono le risposte) tanto che l’80% degli intervistati ha dichiarato di voler andare a lavorare all’estero - non a caso, dal 2011 al 2023, 550mila i giovani italiani tra i 18 e 34 anni si sono trasferiti - e il 40% ha cambiato lavoro a causa di una retribuzione considerata inadeguata. Ciò, spiega Martina Mauri, direttrice Osservatorio Hr Innovation Practice, ha comportato «uno spostamento importante verso l’aspetto intrinseco della motivazione. Mentre perde forza quello estrinseco, il lavoro cioè non è un più uno status symbol o il raggiungimento di quelli che sono gli status symbol classici, una bella macchina, una bella casa. L’aspetto individuale, personale, è prevalente. E questo è evidente dall’importanza che si dà all’equilibrio con la vita privata».
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